Andrea Ciribuco: storia di un migrante di ritorno

Italia-Irlanda: un viaggio di andata e ritorno

Andrea Ciribuco: storia di un migrante di ritorno

Andrea Ciribuco al banco del Dipartimento di italiano all'Open Day dell'Università di Galway

Andrea Ciribuco al banco del Dipartimento di italiano all'Open Day dell'Università di Galway

Perugia, dicembre 2017. Intervistiamo Andrea Ciribuco, dell'Università di Galway (Irlanda), tornato in Italia dopo sei anni, per la sua ricerca sul ruolo dell'elemento "lingua" nell'integrazione e inclusione.

Quanto ti riconosci nell’espressione “migrante di ritorno”?
"Mi sono trasferito in Irlanda pochi mesi dopo la laurea, perché avevo vinto una borsa di dottorato all’Università di Galway. Non è magari il primo tipo di movimento che viene in mente quando sentiamo la parola “migrante”, ma è una delle meccaniche di base della migrazione: in quel momento non avevo opportunità nel mio Paese natale, ho trovato un’opportunità in un altro Paese e sono andato. Chiaramente l’Unione Europea consente (per chi nasce già dentro i suoi confini) una facilità di movimento senza precedenti, e quindi il processo è molto più facile, è quasi “sfumato” perché non c’è bisogno di visti o permessi. Però sì, sono emigrato, ho vissuto fuori dall’Italia per studiare e lavorare e ora sono di nuovo qui, nella mia regione. Non escludo di spostarmi di nuovo, ma per il momento mi godo la possibilità di essere di nuovo vicino alla mia famiglia".

Sei stato un “cervello in fuga”?
"Preferisco di gran lunga “migrante di ritorno”. Come dico sempre, un cervello ce l’abbiamo tutti. Io credo che, per quanto gli insegnanti e i ricercatori italiani siano effettivamente presenti in molte università d’Europa e del mondo, la definizione “cervello in fuga” serva a iper-semplificare un discorso che in realtà è più complesso. 
Innanzitutto perché la mobilità fa parte del mondo della ricerca e del sapere, in tutte le università gli italiani che vanno a insegnare e fare ricerca si trovano in mezzo a ricercatori tedeschi, americani, belgi, scandinavi... Ogni grande università cerca di attirare talenti da tutto il mondo ed è normale che gli italiani, che sono spesso ben preparati, vadano anche là. Poi, e questa è la cosa che mi sta più a cuore dire, gli italiani che ho incontrato vivendo in Irlanda, Regno Unito, America non erano certo solo i cosiddetti “cervelli”. Nel 2012, gli iscritti AIRE in Irlanda erano circa 8,500. Ti assicuro che non erano tutti ricercatori o manager, c’è un sacco di gente che negli ultimi anni se ne sta andando per trovare condizioni di lavoro migliori, un’opportunità, o semplicemente perché poteva e voleva fare un’esperienza all’estero. Ho incontrato camerieri, studenti, impiegati, commessi, informatici. Però facciamo fatica a dire che siamo un Paese di emigranti – cosa che tra l’altro non è una novità per l’Italia, ma anche quello ce lo dimentichiamo molto spesso. Più facile dire che siamo un Paese di cervelli in fuga
".

Ci vuoi raccontare un po' di cosa fai?
"Io ho avuto la fortuna di tornare in Italia per un progetto di ricerca irlandese/europeo che mi consente di collaborare con Tamat per ben due anni. In generale, mi occupo di apprendimento della lingua da parte dei migranti, della produzione scritta e orale in una lingua seconda, e del ruolo che una nuova lingua ti consente di ottenere in società. È un interesse che ho sviluppato facendo un dottorato di ricerca su Emanuel Carnevali, un intellettuale italoamericano degli anni ’20  (appunto, se vogliamo capire la migrazione di oggi è importante capire che la migrazione fa parte della nostra storia) e poi insegnando italiano all’Università di Galway negli ultimi due anni. Grazie a questo progetto, ho l’opportunità di vedere le cose che studio fianco a fianco con chi ci lavora. Per esempio, sto dando una mano con il progetto Urbagri4Women ora, insegnando italiano ad un gruppo di donne migranti che stanno studiando da imprenditrici agricole. È un’opportunità di vedere sul campo i processi linguistici, sociali e culturali che studio in modo continuativo". 

A quali domande può dare risposta la tua ricerca e come?
"La lingua è una parte talmente importante della società che spesso nella vita di tutti i giorni la dimentichiamo, la diamo per scontata, finché non arriva qualcuno che parla in modo diverso da noi e allora risalta, ci sembra strano. È chiaro che l’attuale diffidenza nei confronti del fenomeno migratorio non è data solo da fattori linguistici, ma il fatto di non potersi parlare, di non potersi capire spesso è uno dei fattori che esaspera questa diffidenza. Io studio il modo in cui questo gap viene superato, quel tipo di lavoro paziente fatto  dalle due parti.
Uno studioso, Michael Cronin, ha detto una volta che essere un migrante vuol dire essere in uno stato di traduzione perenne. E come tutte le traduzioni, può andare male o bene. Io mi occupo dei rischi e dei vantaggi di questo stato di traduzione, del modo in cui le persone cercano di capire come far passare un messaggio, il che finisce per influenzare tante cose dal rapporto con le istituzioni alla ricerca del lavoro. In particolare, ho scelto di concentrarmi sul territorio di Perugia perché questo tipo di ricerca viene fatto di solito nei quartieri multietnici delle grandi città, mentre credo che un territorio non metropolitano abbia problemi e potenzialità diverse che meritano attenzione
".